foto di paula de jesus |
Il vento di maestrale aveva spazzato via tutte le nuvole
grigie. Il Vecchio giornalista avanzava lungo via dell’Idroscalo trascinando
due calosce consunte che a ogni passo schiaffeggiano l’acqua salata che la
notte agitata del mare aveva lasciato sull’asfalto. Seguiva i suoi pensieri. Lo
sguardo fisso a terra, la testa insaccata nelle spalle puntute, empia di
pensieri pesanti. I pantaloni, stretti in vita da una cinta vecchia come il
fiume, ballavano lungo i fianchi formando pieghe sulle ginocchia. Le braccia
nelle tasche di un giaccone colore del mare d’inverno sembravano cercare
l’idea, come se lì dentro fosse conservata tutta la sua memoria. Si ricordò del
suo scrivere, della sua professione. Del dolore che l’assenza di uno spunto
provocava, come un fallimento annunciato.
I suoi passi lo portarono davanti all’unico bar della zona.
Senza insegna ma con una scritta rabberciata che diceva Comitato, lasciando
alla fantasia dell’avventore l’interpretazione ampia di quella parola incisa
sul legno del cartello. Il bar era assestato tra mattoni e cemento armato, come
un gancio del ko durante un incontro di pugilato, eretto senza la minima
concessione alla bellezza, tra l'impenetrabile muraglia ora grigia ora bianca
di casupole dal lato opposto al mare.
Quello stesso bar era il posto in cui una volta alla
settimana il Vecchio giornalista si concedeva il lusso di una sbronza
che, come nel caso delle puttane, l’ultima diventava per molti la più
memorabile della vita.
Il Vecchio giornalista del resto, aveva attraversato la vita
ballando sulle onde del rhum, del gin o del whisky, accompagnando la vita con
tante di quelle sbronze che, se per altri erano state indimenticabili, lui
aveva finito per scordarsele, confondendone proporzioni e storie, cause ed
effetti.
“Che hai di forte?” - domandò al proprietario, un tipo
slavato, come se fosse importante o come se fosse possibile scegliere marche e
tipi di alcool in un posto in cui l'unica cosa davvero significativa era la
presenza di un qualche liquido distillato da bere.
“Oggi whisky - rispose lo slavato - il leggendario Johnny
Walker, boss” - mostrando i denti ingialliti dalla nicotina. “A
quanto me lo fai un dito?”
“Un euro, boss ...”
Il Vecchio giornalista infilò la mano nelle profondità delle
sue tasche ed estrasse tutte le monete che vi trovò. Tirò fuori anche una
fiaschetta di metallo. Posò il tutto sul legno sbeccato del bancone e riuscì a
mettere insieme tre euro e dieci centesimi. Mise da parte gli spiccioli inutili
e guardò lo slavato.
“Riempimi questa. Ne voglio tre e non chiamarmi più Boss
perché non sono neanche picciotto”.
Lo slavato lo guardò negli occhi e sorrise. Prese la
bottiglia di rum e ne versò una quantità abbondante in un bicchiere per
passare poi a riempire la fiaschetta.
“Ti avevo detto tre ...”
“Uno te lo offro io... Mi sembra che tu ne abbia un gran
bisogno…”
Il Vecchio giornalista guardò il liquido dorato, ispirò il
tipico profumo di perdizione e pensò che quello slavato, esperto nel trattare
con ubriaconi e disperati, aveva perfettamente ragione: ne aveva molta più
necessità di tanta gente al mondo e per questo motivo accettò.
Uscì dal bar con un orgoglio nuovo da mostrare e la testa
finalmente fuori dalle spalle.
Un autista di autobus accennò un saluto. Il Vecchio
giornalista non rispose. Sembrava assente o forse era immerso nei suoi
pensieri. L’autista sorrise scuotendo bonario la testa come a dire “sarà per
la prossima”.
Il vecchio si incamminò attraversando il quartiere fatto di
strade dall’asfalto sbeccato e rifiuti debordanti dai cassonetti in cui i cani
frugavano con molte speranze e scarso beneficio. La cosa tremenda era che in
quelle stamberghe sprovviste di balconi, di porticati e persino di servizi
vivevano delle persone: quello spicchio di mondo era stato edificato in
funzione delle necessità di avere un tetto sulla testa, un’idea di serenità che
aveva portato quella gente ad abitare spazi in una zona di confine, ultima
frontiera della vecchia cittadina di Ostia che si fregiava di essere il mare di
Roma e che invece della città eterna raccoglieva solo scarti politici, promesse
non mantenute di sedicenti uomini in nero, avanzi di un fascismo putrido e
immondizia trascinata dal fiume.
Zona dannata, scartata, dimenticata e abbandonata, come una
zattera, alla sua deriva, senza timoniere, con i marinai stanchi di essere
stanchi, di vivere una vita in bianco e nero, senza speranze di toccare terra e
rifocillarsi.
Anche il Vecchio ebbe la sensazione di essere sopra una
zattera. Di essere in cerca di un approdo. Vagava da anni in acque pericolose
alla ricerca di un senso che lo portasse a sporcare il bianco immacolato dei
fogli.
Era il suo mestiere. Raccontare di un mondo fragile,
traballante, reale e imperfetto, fatto di bellezza e storture, sogni, utopie.
Capace, con una penna in mano, di dare carne e sangue agli avvenimenti. Buoni o
cattivi che fossero. Rise di se stesso. Di quella sua presunzione o forse di
pena.
Giunto alla scogliera si girò ancora verso il villaggio.
Luogo carico di una lunga storia di moderna perdizione, di vizio e segretezze.
Di vicende per le quali il Vecchio giornalista provava il rimpianto
dell'avventura che aveva un sapore piratesco.
Lì, in quelle case, il vecchio aveva visto passare gente di
ogni razza. Conosceva uno ad uno gli abitanti e mai aveva visto la tristezza
albergare nei loro occhi. Ognuno con il proprio sguardo, con la propria storia.
Quelli segnati da un passato ambiguo, quelli “con la coscienza alla luce del
sole”, quelli dello scalino e col tatuaggio, quelli segnati dalla droga. E
insieme a quelle facce aveva sentito gli spifferi tra le mura. Voci che
sussurravano di fuorilegge a buon prezzo e che si inseguivano tra le casupole
di cemento e gli sguardi omertosi di chi li abitava, immersi in quelle
pozzanghere alla ricerca di un vivere decente, in cambio di un male senza
fondo. Tutti segnati dal marchio dell’indifferenza. Come se abitare laggiù
fosse una colpa. Una medaglia appiccicata a forza sui quei volti dal bel mondo
dei palazzinari già pronti a far lotteria di quel pezzo di terra da innalzare a
sacrificio, dove albergava la disperazione di anime mai arrese. Il vecchio
pensò al supplemento di forza quotidiana degli inquilini, intrappolati da un
fatalismo urbanistico decisamente crudele, esseri umani che uscendo in strada
dovevano vedersi ogni giorno lo stesso panorama tetro e desolante, tanto
lontano dagli affari e dal lusso del porto di Roma eppure tanto vicini da
sentirne i profumi e odorare la ricchezza. Ed ora la notizia dello sgombero
imminente che aleggiava sulle loro teste come una nera promessa.
Cosa poteva fare per cambiare quel destino deplorevole e
patetico lui che considerava la memoria, uno dei doni più preziosi? Forse
l'arte, poteva essere il rimedio più consono alle sue capacità per sfuggire
all'oblio concluse mentre osservava il sole che scendeva, lasciando dietro di
sé la luce pallida del pomeriggio invernale.
Lasciò l’asfalto, scegliendo una stradina di fango che si
apriva tra due alti muri di sterpi che spuntavano minacciosi. Arrivò davanti a
un cancelletto di legno col catenaccio e, sempre incurvato, armeggiò, chiavi in
mano, con la serratura. Poi, lento come se non volesse vedere la storia chiusa
in quel monumento, oltrepassò il cancello.
Entrò in una specie di giardino bordato da macchia pallida
di canne lacustri e fitto di cespugli e alberi di eucaliptus. Via via che si
inoltrava, l'aria si riempiva di un odore di acqua stagnante, di foglie morte,
di erbe in decomposizione. Intorno non c’era altro che un terreno fatto di
saliscendi gibbosi, terra e recinzioni artefatti con incastri di rami. Un pino
agitato dal vento spiccava solitario dagli arbusti. Alle sue spalle si agitava
il fiume ricacciato indietro dal vento. Lanciava spruzzi di acqua marcia quasi nauseabonda
come se non ancora libero, protestasse per le violenze subite, urlando la sua
rabbia per i baratti e le parole volgari spacciate per allori, di chi aveva
edificato quell’oasi, tra il cemento e l’acqua. Raggiunse un capanno verniciato
di fresco coi vetri rotti. Vi entrò per fumare una sigaretta, per godere della
compagnia del rhum o forse semplicemente per ripararsi dal freddo.
Il giovane procedeva per la strada costeggiata da capannoni
che ospitavano barche in attesa del varo. Pensò a quello che lo attendeva alla
fine di quel lusso sfrenato e l’unica considerazione decente che riuscì a
formulare fu che in quell’Italia dei misteri in pochi potevano far fortuna
senza trucchi o inganni.
Quando arrivò a una piazzola di terra e di buche, dove l'autobus
girava e ripartiva, vide una serie ininterrotta di vicoli e casupole senza
ordine.
Pensò che l’Idroscalo era la zona meno nobile di Ostia. In
realtà vi capitava poca gente e non perché fosse brutta e sgradevole ma
semplicemente perché era considerata da tutti estranea alla vita della
cittadina.
No, non doveva essere piacevole sprecare la propria vita tra
quelle baracche. Il fiume sempre pronto ad aggredire quella zolla di terra e
una fatica congenita sul groppone per allontanare i capricci del mare nelle
notti di libeccio - si disse - mentre osservava il villaggio che aveva l’aria
di un battello pirata abbandonato sulla spiaggia e puntava la prua verso ovest
in cerca di un posto da cui riprendere il mare. Era forse questo il posto che
cercava per strappare qualche notizia e imbastire un articolo, perché
quell'angolo di Ostia gli era sempre sembrato limpido a differenza delle acque
della città eterna, popolate da squali, avvelenate da miasmi. Quel mare e
quella terra che avevano vita e onde chiare, si beava della dimensione di
libertà di cui lui aveva bisogno: uno spazio aperto, capace di raccontare
storie e in grado di contrastare la melma degli affari, le puttane di alto
bordo profumate e pagate a peso d’oro e le unghie degli speculatori che si
sarebbero, prima o poi, avventati su quelle strade cinte da muri scrostati.
Respirando l'aria cristallina, il giovane capì perché era
stato spedito laggiù dal caporedattore e sentiva che avrebbe trovato qualcosa.
E considerò che era meglio di niente poiché l'arida striscia di nulla lasciata
nei suoi pochi anni di professione di giornalista gli rivelava un futuro
incerto nonostante avesse innalzato a ragione di essere, la soffocante
inutilità dei suoi sforzi lavorativi, come bestia da soma che si supponeva
intelligente.
Scese dall’auto e rimase a fissare il villaggio
dell’Idroscalo come un visionario che ha appena assistito a un miracolo. La
desolazione di tanto presente operoso, di tanta vita trasformata semplicemente
in azioni costruttive nel tentativo di fuggire la miseria e al tempo stesso di
indifferenza delle istituzioni, era pari alla scoperta di un mondo nuovo che
ora si stendeva ai suoi piedi. Una rivelazione.
La spiaggia sembrò chiamarlo e senza esitare si avventurò
verso l’acqua così da poter osservare il lento scorrere del fiume. Una vita,
quella del Tevere, fatta di storie di passione e rifiuti della città che
arrivavano quaggiù tra l’indifferenza del mondo. Un viaggio che si ripeteva
costantemente.
E’ l’acqua del fiume che scendeva al mare – si disse il
giovane. E le sue storie di abbandono senza le quali non era possibile vivere,
anche se era impossibile conviverci.
Rimase sorpreso il giovane nel constatare di come la gente
si era industriata per campare, di come quegli uomini e quelle donne avevano
alzato un tetto contro il freddo e la disperazione, architettura spontanea,
esigenza in una vita di stenti. Avanzò guardando i bambini che giocavano
scaldati dal sole, scalzi, vivaci e sereni, sulla riva di un mare limpido che
mai era sembrato una discarica.
La facciata di un bar ebbe su di lui l'effetto di una
calamita come l'odore pregnante di salsedine del locale consacrato da anni alla
vendita di ogni genere di mercanzia legale e soprattutto illegale che lo spinse
senza rimorsi verso l'interno, dove scoprì con sorpresa un luogo pittato di
un’accoglienza unica, capace di essere magnetico e sporco allo stesso tempo.
Sì, gli piaceva proprio quel posto.
Il giovane attese che i suoi occhi si abituassero alla
penombra trovò il bancone quasi deserto. Chi avrebbe potuto frequentare un
luogo del genere a metà mattinata. Girò lo sguardo scorgendo la sagoma di un
uomo, seduto nell’unico tavolino, che giudicò un incorreggibile. Era un uomo di
mezza età, intento a scrivere Si guardarono per un momento e il giovane fissò
quell’uomo dallo sguardo intenso.
Ora il giovane lo vedeva dall’alto, la testa china sul foglio,
le mani decise nell’atto del comporre e fuse in un tutt'uno con la penna e con
il block notes. L’uomo vedendo l’ombra, alzò appena gli occhi e il giovane,
come intuendo di essere arrivato a destino, trovò il coraggio di chiedere:”Cosa
scrivi?” – L’uomo seduto non sembrò sorpreso da quella domanda. Posò la penna e
con semplicità rispose:”Andiamo a far due passi”.
Il giovane cercò di chiamarlo. Riuscì solo a gridare:” Cosa
hai da dirmi ancora?”
Il Poeta non rispose. Il giovane rimase in attesa. Il buio
divenne sempre più impenetrabile, non sentiva neppure i suoi passi. Riprese
stancamente a camminare e solo quando sono alla fine della strada sentì
arrivare una risposta come se fosse vicina, come un soffio nell'orecchio:
"La nostra speranza è ugualmente ossessa".
Il giovane si girò convinto che fosse dietro di sé, che il
Poeta lo avesse raggiunto e invece si accorse di essere solo con il gran vuoto
della campagna, senza un frullare di ali o il suono delle onde sulla battigia.
Niente.
Alcune immagini dell'evento
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