TODO CAMBIA ...

lunedì 12 novembre 2012

Futuro Remoto (v. integrale) - dedicato a P.P.P

(La versione integrale del mio intervento alla commemorazione della morte di Pier Paolo Pasolini organizzata dall'associazione "Mare in Vista" il 10/11/2012 a Ostia. La versione accorciata per l'evento a questo link

foto di paula de jesus
Il vento di maestrale aveva spazzato via tutte le nuvole grigie. Il Vecchio giornalista avanzava lungo via dell’Idroscalo trascinando due calosce consunte che a ogni passo schiaffeggiano l’acqua salata che la notte agitata del mare aveva lasciato sull’asfalto. Seguiva i suoi pensieri. Lo sguardo fisso a terra, la testa insaccata nelle spalle puntute, empia di pensieri pesanti. I pantaloni, stretti in vita da una cinta vecchia come il fiume, ballavano lungo i fianchi formando pieghe sulle ginocchia. Le braccia nelle tasche di un giaccone colore del mare d’inverno sembravano cercare l’idea, come se lì dentro fosse conservata tutta la sua memoria. Si ricordò del suo scrivere, della sua professione. Del dolore che l’assenza di uno spunto provocava, come un fallimento annunciato.  

I suoi pas­si lo portarono davanti all’unico bar della zona. Senza insegna ma con una scritta rabberciata che diceva Comitato, lasciando alla fantasia dell’avventore l’interpretazione ampia di quella parola incisa sul legno del cartello. Il bar era assestato tra mattoni e cemento armato, come un gancio del ko durante un incontro di pugilato, eretto senza la minima concessione alla bellezza, tra l'impenetrabile muraglia ora grigia ora bianca di casupole dal lato opposto al mare.
Quello stesso bar era il posto in cui una volta alla settimana il Vecchio giornalista si concedeva il lusso di una sbronza  che, come nel caso delle puttane, l’ultima diventava per molti la più memorabile della vita.
Il Vecchio giornalista del resto, aveva attraversato la vita ballando sulle onde del rhum, del gin o del whisky, accompagnando la vita con tante di quelle sbronze che, se per altri erano state indimenticabili, lui aveva finito per scordarsele, confondendone proporzioni e storie, cause ed effetti.
“Che hai di forte?” - domandò al proprietario, un tipo slavato, come se fos­se importante o come se fosse possibile scegliere marche e tipi di alcool in un posto in cui l'unica cosa davvero significativa era la presenza di un qualche liquido distillato da bere.
“Oggi whisky - rispose lo slavato - il leggendario Johnny Walker,  boss” - mostrando i denti ingialliti dalla nicotina. “A quanto me lo fai un dito?”
“Un euro, boss ...”
Il Vecchio giornalista infilò la mano nelle profondità delle sue tasche ed estrasse tutte le monete che vi trovò. Tirò fuori anche una fiaschetta di metallo. Posò il tutto sul legno sbeccato del bancone e riuscì a mettere insieme tre euro e dieci centesimi. Mise da parte gli spiccioli inutili e guardò lo slavato.
“Riempimi questa. Ne voglio tre e non chiamarmi più Boss perché non sono neanche picciotto”.
Lo slavato lo guardò negli occhi e sorrise. Prese la bottiglia di rum e ne versò una quantità abbondante  in un bicchiere per passare poi a riempire la fiaschetta.
“Ti avevo detto tre ...”  
“Uno te lo offro io... Mi sembra che tu ne abbia un gran bisogno…”
Il Vecchio giornalista guardò il liquido dorato, ispirò il tipico profumo di perdizione e pensò che quello slavato, esperto nel trattare con ubriaconi e disperati, aveva perfettamente ragione: ne aveva molta più necessità di tanta gente al mondo e per questo motivo ac­cettò.
Uscì dal bar con un orgoglio nuovo da mostrare e la testa finalmente fuori dalle spalle.
Un autista di autobus accennò un saluto. Il Vecchio giornalista non rispose. Sembrava assente o forse era immerso nei suoi pensieri. L’autista sorrise scuotendo bonario la testa co­me a dire “sarà per la prossima”.
Il vecchio si incamminò attraversando il quartiere fatto di strade dall’asfalto sbeccato e rifiuti debordanti dai cassonetti in cui i cani fru­gavano con molte speranze e scarso beneficio. La cosa tremenda era che in quelle stamberghe sprovviste di balconi, di porticati e persino di servizi vivevano delle persone: quello spicchio di mondo era stato edificato in funzione delle necessità di avere un tetto sulla testa, un’idea di serenità che aveva portato quella gente ad abitare spazi in una zona di confine, ultima frontiera della vecchia cittadina di Ostia che si fregiava di essere il mare di Roma e che invece della città eterna raccoglieva solo scarti politici, promesse non mantenute di sedicenti uomini in nero, avanzi di un fascismo putrido e immondizia trascinata dal fiume.
Zona dannata, scartata, dimenticata e abbandonata, come una zattera, alla sua deriva, senza timoniere, con i marinai stanchi di essere stanchi, di vivere una vita in bianco e nero, senza speranze di toccare terra e rifocillarsi.
Anche il Vecchio ebbe la sensazione di essere sopra una zattera. Di essere in cerca di un approdo. Vagava da anni in acque pericolose alla ricerca di un senso che lo portasse a sporcare il bianco immacolato dei fogli.
Era il suo mestiere. Raccontare di un mondo fragile, traballante, reale e imperfetto, fatto di bellezza e storture, sogni, utopie. Capace, con una penna in mano, di dare carne e sangue agli avvenimenti. Buoni o cattivi che fossero. Rise di se stesso. Di quella sua presunzione o forse di pena.
Giunto alla scogliera si girò ancora verso il villaggio. Luogo carico di una lunga storia di moderna perdizione, di vizio e segretezze. Di vicende per le quali il Vecchio giornalista provava il rimpianto dell'avventura che aveva un sapore piratesco.
Lì, in quelle case, il vecchio aveva visto passare gente di ogni razza. Conosceva uno ad uno gli abitanti e mai aveva visto la tristezza albergare nei loro occhi. Ognuno con il proprio sguardo, con la propria storia. Quelli segnati da un passato ambiguo, quelli “con la coscienza alla luce del sole”, quelli dello scalino e col tatuaggio, quelli segnati dalla droga. E insieme a quelle facce aveva sentito gli spifferi tra le mura. Voci che sussurravano di fuorilegge a buon prezzo e che si inseguivano tra le casupole di cemento e gli sguardi omertosi di chi li abitava, immersi in quelle pozzanghere alla ricerca di un vivere decente, in cambio di un male senza fondo. Tutti segnati dal marchio dell’indifferenza. Come se abitare laggiù fosse una colpa. Una medaglia appiccicata a forza sui quei volti dal bel mondo dei palazzinari già pronti a far lotteria di quel pezzo di terra da innalzare a sacrificio, dove albergava la disperazione di anime mai arrese. Il vecchio pensò al supplemento di forza quotidiana degli inquilini, in­trappolati da un fatalismo urbanistico decisamente crudele, esseri umani che uscendo in strada dovevano vedersi ogni giorno lo stesso panorama tetro e desolante, tanto lontano dagli affari e dal lusso del porto di Roma eppure tanto vicini da sentirne i profumi e odorare la ricchezza. Ed ora la notizia dello sgombero imminente che aleggiava sulle loro teste come una nera promessa.
Cosa poteva fare per cambiare quel destino deplorevole e patetico lui che considerava la memoria, uno dei doni più preziosi? Forse l'arte, poteva essere il rimedio più consono alle sue capacità per sfuggire all'oblio concluse mentre osservava il sole che scendeva, lasciando dietro di sé la luce pallida del pomeriggio invernale.
Lasciò l’asfalto, scegliendo una stradina di fango che si apriva tra due alti muri di sterpi che spuntavano minacciosi. Arrivò davanti a un cancelletto di legno col catenaccio e, sempre incurvato, armeggiò, chiavi in mano, con la serratura. Poi, lento come se non volesse vedere la storia chiusa in quel monumento, oltrepassò il cancello.
Entrò in una spe­cie di giardino bordato da macchia pallida di canne lacustri e fitto di cespugli e alberi di eucaliptus. Via via che si inoltrava, l'aria si riempiva di un odore di acqua stagnante, di foglie morte, di erbe in decomposizione. Intorno non c’era altro che un terreno fatto di saliscendi gibbosi, terra e recinzioni artefatti con incastri di rami. Un pino agitato dal vento spiccava solitario dagli arbusti. Alle sue spal­le si agitava il fiume ricacciato indietro dal vento. Lanciava spruzzi di acqua marcia quasi nauseabonda come se non ancora libero, protestasse per le violenze subite, urlando la sua rabbia per i baratti e le parole volgari spacciate per allori, di chi aveva edificato quell’oasi, tra il cemento e l’acqua. Raggiunse un capanno verniciato di fresco coi vetri rotti. Vi entrò per fumare una sigaretta, per godere della compagnia del rhum o forse semplicemente per ripararsi dal freddo.

Il giovane procedeva per la strada costeggiata da capannoni che ospitavano barche in attesa del varo. Pensò a quello che lo attendeva alla fine di quel lusso sfrenato e l’unica considerazione decente che riuscì a formulare fu che in quell’Italia dei misteri in pochi potevano far fortuna senza trucchi o inganni.
Quando arrivò a una piazzola di terra e di buche, dove l'autobus girava e ripartiva, vide una serie ininterrotta di vicoli e casupole senza ordine.
Pen­sò che l’Idroscalo era la zona meno nobile di Ostia. In realtà vi capitava poca gente e non perché fosse brutta e sgradevole ma semplicemente perché era considerata da tutti estranea alla vita della cittadina.
No, non doveva essere piacevole sprecare la propria vita tra quelle baracche. Il fiume sempre pronto ad aggredire quella zolla di terra e una fatica congenita sul groppone per allontanare i capricci del mare nelle notti di libeccio - si disse - mentre osservava il villaggio che aveva l’aria di un battello pirata abbandonato sulla spiaggia e puntava la prua verso ovest in cerca di un posto da cui riprendere il mare. Era forse questo il posto che cercava per strappare qualche notizia e imbastire un articolo, perché quell'angolo di Ostia gli era sempre sembrato limpido a differenza delle acque della città eterna, popolate da squali, avvelenate da miasmi. Quel mare e quella terra che avevano vita e onde chiare, si beava della dimensione di libertà di cui lui aveva bisogno: uno spazio aperto, capace di raccontare storie e in grado di contrastare la melma degli affari, le puttane di alto bordo profumate e pagate a peso d’oro e le unghie degli speculatori che si sarebbero, prima o poi, avventati su quelle strade cinte da muri scrostati.
Respirando l'aria cristallina, il giovane capì perché era stato spedito laggiù dal caporedattore e sentiva che avrebbe trovato qualcosa. E considerò che era meglio di niente poiché l'arida striscia di nulla lasciata nei suoi pochi anni di professione di giornalista gli rivelava un futuro incerto nonostante avesse innalzato a ragione di essere, la soffocante inutilità dei suoi sforzi lavorativi, come bestia da soma che si supponeva intelligente.
Scese dall’auto e rimase a fissare il villaggio dell’Idroscalo come un visionario che ha appena assistito a un miracolo. La desolazione di tanto presente operoso, di tanta vita trasformata semplicemente in azioni costruttive nel tentativo di fuggire la miseria e al tempo stesso di indifferenza delle istituzioni, era pari alla scoperta di un mondo nuovo che ora si stendeva ai suoi piedi. Una rivelazione.
La spiaggia sembrò chiamarlo e senza esitare si avventurò verso l’acqua così da poter osservare il lento scorrere del fiume. Una vita, quella del Tevere, fatta di storie di passione e rifiuti della città che arrivavano quaggiù tra l’indifferenza del mondo. Un viaggio che si ripeteva costantemente.
E’ l’acqua del fiume che scendeva al mare – si disse il giovane. E le sue storie di abbandono senza le quali non era possibile vivere, anche se era impossibile conviverci.
Rimase sorpreso il giovane nel constatare di come la gente si era industriata per campare, di come quegli uomini e quelle donne avevano alzato un tetto contro il freddo e la disperazione, architettura spontanea, esigenza in una vita di stenti. Avanzò guardando i bambini che giocavano scaldati dal sole, scalzi, vivaci e sereni, sulla riva di un mare limpido che mai era sembrato una discarica.
La facciata di un bar ebbe su di lui l'effetto di una calamita come l'odore pregnante di salsedine del locale consacrato da anni alla vendita di ogni genere di mercanzia legale e soprattutto illegale che lo spinse senza rimorsi verso l'interno, dove scoprì con sorpresa un luogo pittato di un’accoglienza unica, capace di essere magnetico e sporco allo stesso tempo. Sì, gli piaceva proprio quel posto.
Il giovane attese che i suoi occhi si abituassero alla penombra trovò il bancone quasi deserto. Chi avrebbe potuto frequentare un luogo del genere a metà mattinata. Girò lo sguardo scorgendo la sagoma di un uomo, seduto nell’unico tavolino, che giudicò un incorreggibile. Era un uomo di mezza età, intento a scrivere Si guardarono per un momento e il giovane fissò quell’uomo dallo sguardo intenso.
Ora il giovane lo vedeva dall’alto, la testa china sul foglio, le mani decise nell’atto del comporre e fuse in un tutt'uno con la penna e con il block notes. L’uomo vedendo l’ombra, alzò appena gli occhi e il giovane, come intuendo di essere arrivato a destino, trovò il coraggio di chiedere:”Cosa scrivi?” – L’uomo seduto non sembrò sorpreso da quella domanda. Posò la penna e con semplicità rispose:”Andiamo a far due passi”.

Il giovane cercò di chiamarlo. Riuscì solo a gridare:” Cosa hai da dirmi ancora?”
Il Poeta non rispose. Il giovane rimase in attesa. Il buio divenne sempre più im­penetrabile, non sentiva neppure i suoi passi. Riprese stancamente a camminare e solo quando sono alla fi­ne della strada sentì arrivare una risposta come se fosse vicina, come un soffio nell'o­recchio: "La nostra speranza è ugualmente ossessa".
Il giovane si girò convinto che fosse dietro di sé, che il Poeta lo avesse raggiunto e invece si accorse di essere solo con il gran vuo­to della campagna, senza un frullare di ali o il suono delle onde sulla battigia. Niente. 

Alcune immagini dell'evento 

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