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venerdì 16 novembre 2012

Màncora, Perù: il cantore (Storie di Uomini Calamita)



Una stilla poggiata sul Pacifico.
Cento chilometri a sud dell’equatore. Spiagge immense e bianche, palme flagellate dal vento che soffia dispettoso dalle prime ore del pomeriggio fino al tramonto. Una fila di surfisti padroni del mondo che aspettano l’onda perfetta, parodia della vita di chi aspetta l’occasione che non arriverà mai. Altro ancora.
Alberghi e cantieri con vista sul mare, bikini ondeggianti e niente dentro, gente con il sorriso sempre pronto; il diritto ad avere caldo l’inverno e fresco d’estate per non sciupare la pelle abbronzata; la capacità di galleggiare sulla sazietà delle parole ovvie, senza mai sporcarsi le mani. 
Vetrine per le grandi marche sempre presenti, fumo sulla fatica altrui.
E ancora l’ultima moda delle mute, dei surf, degli occhiali fatti apposta per non vedere quello che c’è dieci chilometri prima e dieci chilometri dopo.
Màncora non sembra Perù ma Hurgada o forse Rimini, sconosciuta in Europa ma famosa qui a queste latitudini.
Se per sbaglio o per desiderio oltrepassi la linea invisibile del turista perfetto ecco che d’incanto appare l’America Latina che ti aspetti. Ecco il Perù o forse l’Ecuador o magari l’Africa. Baracche senza fogne, mocciosi senza scarpe, donne bambine senza più l’infanzia, pance minorenni senza più verginità. Vestiti sudici, piccole discariche familiari, cani randagi secchi e pieni di pulci. E sullo sfondo le onde. Quelle del mare come quelle della vita. Quelle che dall’altra parte ti portano su e da questa sempre giù, sperando che non ci sia burrasca.
Decido di uscire dalla zona del turista e la mia attenzione è attirata da una folla di locali che si sposta in massa. Da bravo italiano medio seguo la marea fino a raggiungere una casa. Una come tante, con i muri decrepiti e le finestre con le sbarre. Solo un particolare la distingue: un megafono spunta da un balcone al primo piano. Alle sette in punto una voce di uomo inizia a parlare. Un lamento lungo, una serie di parole parlate con cadenza epica, quasi dolorosa. O forse una preghiera per chi vuole ascoltare.
Succede tutti i giorni – mi dice un ragazzo. Alle sette in punto.
Ma chi è? – chiedo.
Un matto! – esclama una ragazza. Sono cinque giorni che da quel megafono escono storie di gente sconosciuta, frasi messe una dopo l’altra.
E’ tutto inventato – dice un’altra. Forse e’ una pubblicità perché inizia sempre parlando della birra.
Poi puntuale sale il sipario.
L’uomo senza volto ha la voce è forte e chiara. Parla lentamente e scandisce bene le parole e da quel megafono prendono vita numerosi personaggi, come fa un cantastorie con la propria chitarra o un poeta con la propria penna.
“Avevo il cervello pieno di eroina e le vene piene di birra ma ricordo tutto e ora ve lo racconto. Inizio da qui…” – parte così il cantore e tutti lì ad ascoltare.      

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