Di seguito il mio contributo.
La Paz, 12 novembre 2005
Una città da delirio.
L’accostamento a una geografia urbana senza eguali. Senza un
metro di pianura. Senza un filo di verde. I muri che comunicano vecchi e nuovi
eroi. Quelli che se ne vanno scortati da elicotteri a stelle e strisce, quelli
che arrivano benedetti da Pacha Mama che regala la neve bianca. Il
paesaggio che incontrano i miei occhi è un lungo camminare che si snoda dal
Titicaca fino alla città seguendo il cammino del sole. Varia l’altezza delle
cime, la vastità delle valli, nei ruscelli non cambia la purezza delle acque.
Godo del mio punto di vista e corro indietro nel tempo quando bambino sognavo
di attraversare le Ande in cerca dell’eldorado.
Sono pronto per l’incontro con una umanità variegata e
colorata.
Qui tutto è verticale fino a el Alto, l’immenso mercato a
cielo aperto. Venditori ambulanti ad ogni angolo, donne con la bombetta,
ragazzini con il moccio al naso, taxi a poco prezzo, donne sui carretti tirati
da animali che arrancano in salita, fotografia della vita nella città più alta
al mondo dove tutto è colore. Dei tessuti, delle persone, della frutta offerta
a due soldi, della povertà voluta dai soliti.
Tutto comunica informazione, condizione economica, cicli di
vita e dell’esistenza, appartenenza a quella etnia che ancora parla il quechua,
la lingua dei padri, la lingua di chi, dalla storia, è stato sconfitto e
sopraffatto.
Tutto è movimento, lavori in corso. Nelle strade, nei
palazzi del potere, nei cuori e nelle speranze consapevoli e stridenti, stancanti
e da sempre sognati. Gente povera e stremata, affascinante e bella. Vuota di
cose e piena di attese. L’aria fredda e luminosa sembra dare limpidezza agli
occhi e allontana la mia anima dal mio istinto consumistico.
In basso, ottocento metri più in basso, nel centro della
città si vive come in occidente. Abiti di valore secondo le mode del grande
fratello ricco, cibi mordi e fuggi, gente tirata a lucido che compra auto e
televisori o biglietti per il paradiso senza passare per la terra dei tanti. Ma
in Bolivia questi fortunati sono sempre di meno. E sempre più sono coloro che
su questa terra vivono. Colpiti dalla sorte nella loro fatica del quotidiano,
cancellati dai diritti e dalla speranza. Moltitudine che spera di trovare cibo
per oggi e la fortuna un domani. Folle che coltivano la terra, bassa e
faticosa. Numeri che si spostano nella speranza di qualcosa. Sempre con lo
stesso volto che sa di rame, il cuore a brandelli e con l’anima in fuga
verso un mondo possibile. Hanno molto alle spalle e poco davanti ma non
perdono i sogni.
Come un treno alla stazione che arriva in
ritardo. Ritarda certo, ma che prima o poi arriva.
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