01

I suoi passi lo portarono davanti all’unico bar della zona. Senza
insegna ma con una scritta rabberciata che diceva Comitato, lasciando alla
fantasia dell’avventore l’interpretazione ampia di quella parola incisa sul
legno del cartello. Il bar era assestato tra mattoni e cemento armato, come un
gancio del ko durante un incontro di pugilato, eretto senza la minima
concessione alla bellezza, tra l'impenetrabile muraglia ora grigia ora bianca
di casupole dal lato opposto al mare.
Quello stesso bar era il posto in cui una volta alla settimana il Vecchio
giornalista si concedeva il lusso di una sbronza che, come nel caso delle puttane, l’ultima diventava
per molti la più memorabile della vita.
Del resto, aveva attraversato la vita ballando sulle onde del
rhum, del gin o del whisky, accompagnando la vita con tante di quelle sbronze
che, se per altri erano state indimenticabili, lui aveva finito per
scordarsele, confondendone proporzioni e storie, cause ed effetti.
“Che hai di forte?” - domandò al proprietario, un tipo slavato, come
se fosse importante o come se fosse possibile scegliere marche e tipi di alcool
in un posto in cui l'unica cosa davvero significativa era la presenza di un
qualche liquido distillato da bere.
“Un euro, boss ...”
Il Vecchio giornalista infilò la mano nelle profondità delle sue
tasche ed estrasse tutte le monete che vi trovò. Tirò fuori anche una
fiaschetta di metallo. Posò il tutto sul legno sbeccato del bancone e riuscì a
mettere insieme tre euro e dieci centesimi. Mise da parte gli spiccioli inutili
e guardò lo slavato.
“Riempimi questa. Ne voglio tre e non chiamarmi più Boss perché
non sono neanche picciotto”.
Lo slavato lo guardò negli occhi e sorrise. Prese la bottiglia di
rum e ne versò una quantità abbondante in un bicchiere per passare poi a riempire la
fiaschetta.
“Ti avevo detto tre ...”
“Uno te lo offro io... Mi sembra che tu ne abbia un gran bisogno…”
Il Vecchio giornalista guardò il liquido dorato, ispirò il tipico
profumo di perdizione e pensò che quello slavato, esperto nel trattare con
ubriaconi e disperati, aveva perfettamente ragione: ne aveva molta più
necessità di tanta gente al mondo e per questo motivo accettò.
Uscì dal bar con un orgoglio nuovo da mostrare e la testa
finalmente fuori dalle spalle.
Un autista di autobus accennò un saluto. Il Vecchio giornalista
non rispose. Sembrava assente o forse era immerso nei suoi pensieri. L’autista sorrise
scuotendo bonario la testa come a dire “sarà per la prossima”.
Il vecchio si incamminò attraversando il quartiere fatto di strade
dall’asfalto sbeccato e rifiuti debordanti dai cassonetti in cui i cani frugavano
con molte speranze e scarso beneficio. La cosa tremenda era che in quelle stamberghe
sprovviste di balconi, di porticati e persino di servizi vivevano delle persone:
quello spicchio di mondo era stato edificato in funzione delle necessità di
avere un tetto sulla testa, un’idea di serenità che aveva portato quella gente ad
abitare spazi in una zona di confine, ultima frontiera della vecchia cittadina
di Ostia che si fregiava di essere il mare di Roma e che invece della città
eterna raccoglieva solo scarti politici, promesse non mantenute di sedicenti
uomini in nero, avanzi di un fascismo putrido e immondizia trascinata dal
fiume.
Zona dannata, scartata, dimenticata e abbandonata, come una
zattera, alla sua deriva, senza timoniere, con i marinai stanchi di essere
stanchi, di vivere una vita in bianco e nero, senza speranze di toccare terra e
rifocillarsi.
Anche il Vecchio ebbe la sensazione di essere sopra una zattera.
Di essere in cerca di un approdo. Vagava da anni in acque pericolose alla
ricerca di un senso che lo portasse a sporcare il bianco immacolato dei fogli.
Era il suo mestiere. Raccontare di un mondo fragile, traballante,
reale e imperfetto, fatto di bellezza e storture, sogni, utopie. Capace, con
una penna in mano, di dare carne e sangue agli avvenimenti. Buoni o cattivi che
fossero. Rise di se stesso. Di quella sua presunzione o forse di pena.
Giunto alla scogliera si girò ancora verso il villaggio. Luogo
carico di una lunga storia di moderna perdizione, di vizio e segretezze. Di
vicende per le quali il Vecchio giornalista provava il rimpianto dell'avventura
che aveva un sapore piratesco.
Lì, in quelle case, il vecchio aveva visto passare gente di ogni
razza. Conosceva uno ad uno gli abitanti e mai aveva visto la tristezza
albergare nei loro occhi. Ognuno con il proprio sguardo, con la propria storia.
Quelli segnati da un passato ambiguo, quelli “con la coscienza alla luce del
sole”, quelli dello scalino e col tatuaggio, quelli segnati dalla droga. E
insieme a quelle facce aveva sentito gli spifferi tra le mura. Voci che
sussurravano di fuorilegge a buon prezzo e che si inseguivano tra le casupole di
cemento e gli sguardi omertosi di chi li abitava, immersi in quelle pozzanghere
alla ricerca di un vivere decente, in cambio di un male senza fondo. Tutti
segnati dal marchio dell’indifferenza. Come se abitare laggiù fosse una colpa. Una
medaglia appiccicata a forza sui quei volti dal bel mondo dei palazzinari già
pronti a far lotteria di quel pezzo di terra da innalzare a sacrificio, dove
albergava la disperazione di anime mai arrese. Il vecchio pensò al supplemento
di forza quotidiana degli inquilini, intrappolati da un fatalismo urbanistico
decisamente crudele, esseri umani che uscendo in strada dovevano vedersi ogni
giorno lo stesso panorama tetro e desolante, tanto lontano dagli affari e dal
lusso del porto di Roma eppure tanto vicini da sentirne i profumi e odorare la
ricchezza. Ed ora la notizia dello sgombero imminente che aleggiava sulle loro teste
come una nera promessa.
Cosa poteva fare per cambiare quel destino deplorevole e patetico
lui che considerava la memoria, uno dei doni più preziosi? Forse l'arte, poteva
essere il rimedio più consono alle sue capacità per sfuggire all'oblio concluse
mentre osservava il sole che scendeva, lasciando dietro di sé la luce pallida del
pomeriggio invernale.
Lasciò l’asfalto, scegliendo una stradina di fango che si apriva tra
due alti muri di sterpi che spuntavano minacciosi. Arrivò davanti a un cancelletto
di legno col catenaccio e, sempre incurvato, armeggiò, chiavi in mano, con la
serratura. Poi, lento come se non volesse vedere la storia chiusa in quel
monumento, oltrepassò il cancello.
Entrò in una specie di giardino bordato da macchia pallida di
canne lacustri e fitto di cespugli e alberi di eucaliptus. Via via che si
inoltrava, l'aria si riempiva di un odore di acqua stagnante, di foglie morte,
di erbe in decomposizione. Intorno non c’era altro che un terreno fatto di
saliscendi gibbosi, terra e recinzioni artefatti con incastri di rami. Un pino
agitato dal vento spiccava solitario dagli arbusti. Alle sue spalle si agitava
il fiume ricacciato indietro dal vento. Lanciava spruzzi di acqua marcia quasi
nauseabonda come se non ancora libero, protestasse per le violenze subite,
urlando la sua rabbia per i baratti e le parole volgari spacciate per allori,
di chi aveva edificato quell’oasi, tra il cemento e l’acqua. Raggiunse un
capanno verniciato di fresco coi vetri rotti. Vi entrò per fumare una
sigaretta, per godere della compagnia del rhum o forse semplicemente per
ripararsi dal freddo.
02
Il giovane procedeva per la strada costeggiata da capannoni che
ospitavano barche in attesa del varo. Pensò a quello che lo attendeva alla fine
di quel lusso sfrenato e l’unica considerazione decente che riuscì a formulare
fu che in quell’Italia dei misteri in pochi potevano far fortuna senza trucchi
o inganni.
Quando arrivò a una piazzola di terra e di buche, dove l'autobus
girava e ripartiva, vide una serie ininterrotta di vicoli e casupole senza
ordine.
Pensò che l’Idroscalo era la zona meno nobile di Ostia. In realtà
vi capitava poca gente e non perché fosse brutta e sgradevole ma semplicemente
perché era considerata da tutti estranea alla vita della cittadina.
No, non doveva essere piacevole sprecare la propria vita tra
quelle baracche. Il fiume sempre pronto ad aggredire quella zolla di terra e
una fatica congenita sul groppone per allontanare i capricci del mare nelle
notti di libeccio - si disse - mentre osservava il villaggio che aveva l’aria
di un battello pirata abbandonato sulla spiaggia e puntava la prua verso ovest
in cerca di un posto da cui riprendere il mare. Era forse questo il posto che
cercava per strappare qualche notizia e imbastire un articolo, perché
quell'angolo di Ostia gli era sempre sembrato limpido a differenza delle acque
della città eterna, popolate da squali, avvelenate da miasmi. Quel mare e
quella terra che avevano vita e onde chiare, si beava della dimensione di libertà
di cui lui aveva bisogno: uno spazio aperto, capace di raccontare storie e in
grado di contrastare la melma degli affari, le puttane di alto bordo profumate
e pagate a peso d’oro e le unghie degli speculatori che si sarebbero, prima o
poi, avventati su quelle strade cinte da muri scrostati.
Respirando l'aria cristallina, il giovane capì perché era stato
spedito laggiù dal caporedattore e sentiva che avrebbe trovato qualcosa. E
considerò che era meglio di niente poiché l'arida striscia di nulla lasciata
nei suoi pochi anni di professione di giornalista gli rivelava un futuro
incerto nonostante avesse innalzato a ragione di essere, la soffocante
inutilità dei suoi sforzi lavorativi, come bestia da soma che si supponeva
intelligente.
Scese dall’auto e rimase a fissare il villaggio dell’Idroscalo come
un visionario che ha appena assistito a un miracolo. La desolazione di tanto presente
operoso, di tanta vita trasformata semplicemente in azioni costruttive nel
tentativo di fuggire la miseria e al tempo stesso di indifferenza delle
istituzioni, era pari alla scoperta di un mondo nuovo che ora si stendeva ai
suoi piedi. Una rivelazione.
La spiaggia sembrò chiamarlo e senza esitare si avventurò verso
l’acqua così da poter osservare il lento scorrere del fiume. Una vita, quella
del Tevere, fatta di storie di passione e rifiuti della città che arrivavano
quaggiù tra l’indifferenza del mondo. Un viaggio che si ripeteva costantemente.
E’ l’acqua del fiume che scendeva al mare – si disse il giovane. E
le sue storie di abbandono senza le quali non era possibile vivere, anche se
era impossibile conviverci.
Rimase sorpreso il giovane nel constatare di come la gente si era
industriata per campare, di come quegli uomini e quelle donne avevano alzato un
tetto contro il freddo e la disperazione, architettura spontanea, esigenza in
una vita di stenti. Avanzò guardando i bambini che giocavano scaldati dal sole,
scalzi, vivaci e sereni, sulla riva di un mare limpido che mai era sembrato una
discarica
La facciata di un bar ebbe su di lui l'effetto di una calamita
come l'odore pregnante di salsedine del locale consacrato da anni alla vendita
di ogni genere di mercanzia legale e soprattutto illegale che lo spinse senza
rimorsi verso l'interno, dove scoprì con sorpresa un luogo pittato di
un’accoglienza unica, capace di essere magnetico e sporco allo stesso tempo.
Sì, gli piaceva proprio quel posto.
Il giovane attese che i suoi occhi si abituassero alla penombra trovò
il bancone quasi deserto. Chi avrebbe potuto frequentare un luogo del genere a
metà mattinata. Girò lo sguardo scorgendo la sagoma di un uomo, seduto
nell’unico tavolino, che giudicò un incorreggibile. Era un uomo di mezza età,
intento a scrivere Si guardarono per un momento e il giovane fissò quell’uomo
dallo sguardo intenso.
Ora il giovane lo vedeva dall’alto, la testa china sul foglio, le
mani decise nell’atto del comporre e fuse in un tutt'uno con la penna e con il
block notes. L’uomo vedendo l’ombra, alzò appena gli occhi e il giovane, come intuendo
di essere arrivato a destino, trovò il coraggio di chiedere:”Cosa scrivi?” – L’uomo
seduto non sembrò sorpreso da quella domanda. Posò la penna e con semplicità
rispose:”Andiamo a far due passi”.
Il giovane cercò di chiamarlo. Riuscì solo a gridare:” Perché m'hai
portato fino a qui?”
Il Poeta non rispose. Il giovane rimase in attesa. Il buio divenne
sempre più impenetrabile, non sentiva neppure i suoi passi. Riprese
stancamente a camminare e solo quando sono alla fine della strada sentì
arrivare una risposta come se fosse vicina, come un soffio nell' orecchio: "La
nostra speranza è ugualmente ossessa".
Il giovane si girò convinto che fosse dietro di sé, che il Poeta lo
avesse raggiunto e invece si accorse di essere solo con il gran vuoto della
campagna, senza un frullare di ali o il suono delle onde sulla battigia. Niente.
03
Solo allora il vecchio giornalista si accorse di essersi
addormentato appoggiato al monumento del Poeta e di aver sognato.
Eppure in questo silenzio che ora lo abitava, il vecchio sentì di
avere la testa piena di parole che riemergevano da un mondo lontano ma non
dimenticato. Con gli occhi ancora chiusi, le immagini divennero materia sia
pure in disordine, casuali. Lentamente la scena si animò, riprendendo corpo,
trovando la sostanza del monumento al poeta, di quel marmo bianco che mai
avrebbe sostituito le idee di quell’uomo geniale e vero.
Aveva sognato il suo amico, le sue parole, il migliore scrittore di
una generazione di speranze e di illusioni. L’uomo che anni prima era stato
massacrato in quella parte di mondo dimenticata da tutti. Pensò che in
trentasette anni non aveva dimenticato quell’incontro, un suo scritto, un suo
pensiero.
Se lo immaginò seduto sugli scogli.
“Qui doveva morire – pensò - Qui dove l’acqua del fiume diventa
libera, senza argini”.
Ritornò verso casa fissando la scogliera.
Il vento faceva oscillare gli alberi e il Vecchio giornalista
respirò a fondo riconoscendo gli odori, i colori, le sensazioni, le certezze di
una possibile appartenenza a un determinato posto e a un tempo che poteva
ritrovare anche solo guardando e respirando con golosità un’atmosfera
irripetibile e profondamente fusa con il suo stesso essere. Quella era la sua
vita, la sua storia, la sua gente che sentiva vicina come quel mare. La
spiaggia, la salsedine, l’odore dolce della terra ammantata di umido erano
sensazioni accettate e assimilate in blocco dalla sua memoria e dai suoi sensi.
Il Vecchio giornalista sembrò annuire, sicuro dei suoi stessi pensieri:
esisteva qualcosa che poteva ancora dire suo, con tenera certezza.
Poi tre lampi nel buio lo riportarono alla realtà. Tre punti
diversi. Nella piazzetta dell’idroscalo vide delle luci lampeggiare.
Ambulanze, camionette e una moltitudine di caschi e manganelli che
si agitavano in ogni dove. La polizia aveva invaso lo spazio. I lupi che troppe
volte aveva sognato.
Si diresse verso casa cercando un riparo e aprì la finestra per ascoltare
il loro arrivo insieme alla notte e al freddo, i loro ululati. Cinquecento
bestie armati di manganelli e caschi avevano circondato la zona. Sapeva che
sarebbero arrivati. Lo sapeva ogni anima di quella comunità. Avvisati dalle
voci che attraversavano le notti dell’Idroscalo. Li sentì arrivare, tra le mura
e gli scogli, con le loro divise e le parole che volavano sulle baracche, lupi
con il pelo nero, pensieri oscuri, che sembravano dire “arrenditi”.
Gli ululati erano lì e attraversavano la piazza e le mura di chi
viveva senza diritti. E i suoi pensieri, cominciarono a percorrere il terreno
della sua memoria.
Fu allora che il rumore raggiunse la potenza di un rombo e si
sentì una deflagrazione. Il borgo veniva raso al suolo demolito dalla forza di
una ruspa che con il becco allungato demoliva le case e, salvo pregare e
attendere, era ben poco quel che si poteva opporre a una tale perversità umana.
Il Vecchio giornalista si chiese se non fosse meglio uscire e lottare nel
tentativo di fermare lo scempio mentre la ruspa compiva il suo macabro rito
purificatore. Sapeva che due ore dopo sarebbe tornata la quiete, che avrebbe
anche smesso di piovere e sarebbe uscito il sole per illuminare meglio il
disastro. Che cosa sarebbe rimasto di quello spazio castigato che il Vecchio
giornalista portava nel cuore con un amore ricambiato? Che cosa sarebbe
sopravvissuto di quel borgo dal quale nessuno voleva fuggire, l'unico posto al
mondo dove centinaia di persone avevano avuto una possibilità di sopravvivenza,
un piccolo spazio in cui gioire, ridere, e perfino cadere a terra morti o in cui
continuare a esistere?
Richiuse la finestra mentre il gelsomino che aveva visto crescere
era steso al suolo. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Quel mondo alla fine
del fiume si piegava, vinto, al cospetto della volontà di pochi che avevano
scatenato la corsa ai pochi spazi rimasti liberi dal cemento.
Bisognava lottare. Di colpo si sentì ringiovanito. Mise sul fuoco
l'ultima macchinetta di caffè e mentre attendeva accese il computer, senza
staccare gli occhi dalle finestre battute ciclicamente dai rumori dei lupi,
dall'acqua e del vento.
In realtà, la devastazione era iniziata molto prima e la ruspa era
solo il feroce esecutore di condanne sancite da altri. Sarebbe rimasto, magari,
il ricordo.
Sì, il ricordo, pensò il Vecchio giornalista e la certezza di
quella salvezza lo fece camminare fino al tavolo della cucina e sistemare sul
piano macchiato da bruciature di sigaretta, di limone e di rum rovesciati, il
vecchio computer.
Poi, portandosi la tazza alla bocca, pensò che avrebbe rimpianto
quel sapore amaro, che sapeva di salsedine e sconfitta.
Quindi aprì la pagina e sul foglio elettronico, di un pulito
sintetico e promettente, cominciò a scrivere parole, idee, frasi con le quali si proponeva
di raccontare la storia dell’Idroscalo, degli uomini e delle donne, prima e
dopo tutti i disastri: materiali, morali, mistici e religiosi, nuziali,
ideologici, affettivi e familiari, da cui emergeva il desiderio originario di
sopravvivenza di quella gente timida da principio ma via via sempre più tenace
e pronta a lottare. Proprio come la vita. E il Vecchio giornalista scriveva,
raccontando la sua gioventù, la storia di un ragazzo che voleva diventare un
grande giornalista e che avrebbe denunciato lo scempio e la vigliaccheria di
coloro i quali vivevano di denaro pubblico o si prostituivano per esso.
Scrisse del Poeta. Scrisse di quell’uomo che si ostinava a voler
mostrare la Storia
per quello che realmente era e non per quello che raccontavano i corrotti di
professione. Scrisse di una nazione bella e violentata e di tutta una comunità
invisibile e nascosta la cui storia sarebbe stata così commovente che neppure
il disastro di quel giorno d'ottobre e di tutti gli altri giorni dell'anno
avrebbero potuto cancellare. Scrisse per lasciare alla Storia una magia più
grande fatta di solidarietà e lotta con le quali gli abitanti dell’Idroscalo si
opponevano allo scempio. Una storia in cui lui avrebbe descritto quella cronaca
di dolore e amore, vissuta in un presente feroce di sfruttamento e che ora
affidava alla carta, cercando di disegnare con pennello delle parole. Futuro
remoto: sì, l'avrebbe intitolata così la sua novella. Un altro fragore
proveniente dalla strada avvertì il giornalista che la demolizione continuava,
le baracche in cemento venivano abbattute e le persone trasferite a forza. Ma
lui si limitò ad aggiungere parole per iniziare un nuovo capitolo, perché la
fine dell’Idroscalo e della sua gente si avvicinava sempre più, ma non era
ancora arrivata, perché restava la resistenza di chi ancora non si arrendeva e
la voce a far volare il ricordo. L’orologio non aveva ancora compiuto l’ultimo
giro. Non era ancora giunto il tempo di ascoltare il silenzio degli scogli
accarezzati dal vento ma la voce di chi continuava a chiedere tra
l’indifferenza. Quella voce era ancora forte, non ancora stata silenziata. Una
voce pronta a porre domande a cui nessuno avrebbe risposto. Domande senza
risposte se non l’imbarazzo della menzogna. Cose alle quali nessuno avrebbe
voluto rispondere.
Lì in quel luogo dove era stato trucidato il Poeta ancora si
potevano sentire le sue parole. Aveva ancora cose da raccontare, da insegnare,
nonostante gli anni passati.
Avrebbe chiesto aiuto a lui perché sapeva che il suo pensiero era
stato capace di raggiungere quel mondo derelitto e ignorato così da concedergli
una possibilità di salvezza.
Avrebbe iniziato con le stesse parole del Poeta perché da lui,
tutto partiva, tutto poteva ricominciare: La nostra speranza è ugualmente
ossessa".
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