Il
31 dicembre un giovane giornalista incontra il comandante Guevara nel comando
dell'Esercito ribelle. In lontananza si sentono le esplosioni delle bombe che i
B-26 di Batista continuano a sganciare sulla città. «Qualcuno che avevo accanto
mi mostrò il Che, indicandolo con la mano. Ed era lì, in effetti. Magro, i
capelli ridotti a un groviglio, un braccio al collo, l'uniforme lacera. Chiunque
lo avrebbe preso per il più umile dei soldati, non fosse stato per lo sguardo
penetrante che scintillava in modo insolito sul viso affaticato.» A quel Che
sull'orlo dell'esaurimento fisico restano di fronte la stazione di polizia, che
gli è costata la morte di uno dei suoi capitani migliori, la caserma Leoncio
Vidal, che con i suoi milletrecento soldati continua a essere superiore per
volume di fuoco a tutte le truppe rivoluzionarie in città, i cecchini del Gran
Hotel, il tribunale e la caserma della guardia rurale accerchiata dalla colonna
del Direttorio. Il Che progetta l'ultima spallata alle forze nemiche. Lo fa
basandosi su un'accurata analisi dell'atteggiamento dei militari batistiani,
sulla loro tendenza a non attaccare. Ha su di sé la responsabilità di mandare in
battaglia per il quarto giorno consecutivo uomini che a malapena hanno dormito
e hanno sulle spalle due settimane di combattimenti continui, che hanno subìto
perdite importanti tra i comandanti e si battono continuamente contro un nemico
superiore di numero e appoggiato dai carri armati. Ricordo un episodio che dimostrava
lo spirito delle nostre forze in quegli ultimi giorni. Avevo rimproverato un
soldato che stava dormendo in piena battaglia, e lui mi rispose che lo avevano
disarmato perché gli era sfuggito un colpo. Gli risposi con la mia abituale
secchezza: «Guadagnati un altro fucile andando in prima linea disarmato ... se
sei capace di farlo». A Santa Clara, mentre incoraggiavo i feriti nell'ospedale
d'emergenza, un moribondo mi toccò la mano e disse: «Ricorda, comandante? Mi ha
mandato a cercarmi un'arma a Remedios ... e me la sono guadagnata qui». Era il
combattente a cui era sfuggito un colpo, che pochi minuti dopo morì, ed era
contento di aver dimostrato il proprio coraggio. Quell'adolescente morto si
chiamava Miguel Arguin. La mattina stessa a Santa Clara si combatte in tutta la
città. Rogelio Acevedo, aiutato da un gruppo di giovani lustrascarpe, quasi dei
bambini, ha tentato di incendiare il tribunale con una tanica da cinque galloni
di benzina, ma ha fallito. Di fronte alla stazione di polizia gli uomini del
plotone suicida appoggiati da rinforzi preparano l'attacco finale. I membri del
plotone vogliono vendicare la morte del Vaquerito. Dentro la stazione il
colonnello Rojas ha ucciso uno dei suoi uomini, il capitano Olivera, perché
voleva arrendersi. La chiesa del Carmen è stata presa fin dal giorno prima da
un gruppo di ribelli, che ha aperto una breccia nella parte posteriore e da lì
spara sul comando. Un carro armato tenta una sortita, l'uomo che lo guida viene
colpito alla testa dai ribelli e adesso il veicolo è immobile. All'interno
della stazione i morti cominciano a decomporsi, non si possono curare i feriti,
i poliziotti hanno fame, sono demoralizzati e i ribelli sparano contro di loro
in continuazione. Verso le quattro del pomeriggio il colonnello Rojas chiede
una tregua per far uscire i feriti. Tamayo gli concede due ore, poi intima la
resa. Negoziano in mezzo alla strada, ma non giungono a un accordo. Quando il
fuoco sta per ricominciare il colonnello parla di nuovo con Leonardo Tamayo, e
questi si dirige verso la stazione seguito da alcuni ribelli che è costretto a
trattenere. Una volta dentro parla direttamente ai poliziotti, dice che se non
vogliono più combattere devono lasciare i fucili e radunarsi all'esterno. Come
se l'ordine fosse venuto dal colonnello Rojas in persona, i poliziotti
cominciano a uscire dalla stazione. Sono trecentonovantasei: i ribelli che li
assediavano sono centotrenta. La
popolazione entra nella stazione e nei sotterranei vengono trovati strumenti di
tortura. Non cade solo la stazione di polizia. La sede del governo provinciale,
presidiata da un centinaio di soldati, viene attaccata dalle forze di Alfonso
Zayas e, alle spalle, dal plotone di Alberto Fernandez, che sfondando muri
riesce a penetrare nell'edificio. Lì il capitano Pachungo Fernandez, con una
granata in mano, sorprende i soldati e li costringe ad arrendersi. Il plotone
del capitano Acevedo prende il tribunale nonostante i carri armati che lo
proteggono. Cinque aerei bombardano la città, con bombe da cinquecento libbre
che distruggono le case come se fossero di carta. Si accaniscono soprattutto
sul palazzo del tribunale, appena catturato dai ribelli, ma le mitragliatrici
antiaeree prese nel treno blindato cominciano a sparare e gli aerei scompaiono
dal cielo di Santa Clara. Cade il carcere, vengono liberati i detenuti politici
e i prigionieri comuni scappano attraverso una breccia approfittando della
confusione. Cominciano a premere sulla Leoncio Vidal i plotoni ribelli dal
centro della città e le forze di Rivalta dal quartiere del Condado, che
arrivano a trincerarsi a cento metri dal reggimento. Scrive Aleida: «Avanzammo
verso il centro su dei carri armati che avevamo preso alla stazione di polizia.
Era la prima volta che entravo in un carro armato e mi sembrava di stare dentro
una trappola per topi». Luis Alfonso Zayas aggiunge: «Avevamo circondato il
Gran Hotel quando, verso le undici di sera, vedo un carro armato che dalla via
della stazione si dirige verso il parco Vidal. Spunta fuori il Che.
"Comandante, che ci fa lì dentro? Lo sa che i nostri hanno proiettili
antiblindo e bazooka?" E lui rispose senza darmi retta: No, non gli arrivo
addosso da dietro come con te, so bene dove sono».Si
combatte davanti al Gran Hotel, dove al decimo piano c'è una dozzina di
cecchini, poliziotti, membri dell'odiato SIM, il Servicio de inteligencia militar,
torturatori, che usano anche gli ospiti come scudo umano rifiutando di
lasciarli uscire dall'albergo. Dal parco e dagli edifici di fronte si spara
contro di loro. Alberto Pernandez guida un gruppo che va a incendiare il
secondo piano con le molotov. I cecchini sono intrappolati nell'albergo, non
hanno cibo e l'acqua è stata loro tagliata. Ma dall'alto hanno ferito molti
civili e miliziani che attraversavano il parco e hanno ancora munizioni. La
squadra del minore degli Acevedo, Enrique, partecipa a una "gara di
rottura delle finestre" con i cecchini batistiani. Si combatte con lo
squadrone 31. Le cannonate dei carri armati distruggono l'edificio della Canada
Dry e diverse villette limitrofe da cui i ribelli sparano contro la caserma.
Sempre più da vicino. A metà pomeriggio di quel 31 dicembre, il comando del Che
riceve, attraverso la sua stazione radio, la notizia che Yaguajay si è arresa
alle truppe di Camilo. Adesso quelle forze sono disponibili per l'assalto
finale alla Leoncio Vidal. Alle
dieci di sera Casillas Lumpuy si mette in comunicazione con Batista, gli dice
che la città sta per cadere in mano ai ribelli e che ha urgente bisogno di
rinforzi. Non ottiene dal dittatore neppure una falsa promessa. Durante la
notte, dopo aver arringato soldati e ufficiali esigendo da loro una resistenza
eroica, si traveste con un cappello di paglia e un vestito da civile e, dicendo
che deve fare un'ispezione nella provincia, scappa dalla caserma con il capo
delle operazioni, Fernandez Suero. Ormai
ai batistiani restano solo tre sacche armate: il Gran Hotel, la caserma dello
squadrone 31 e la Leoncio Vidal. Il Che sa che da un momento all'altro Fidel
darà inizio all'offensiva finale su Santiago de Cuba e ha fretta di spazzar via
quei tre punti di resistenza. Il 1958 sta per finire.
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